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Fotografia

'Confine': la storia di una stazione diventata un campo migranti

A metà tra photobook e raccolta di reportage, 'Confine' è un progetto in cui Como riscopre la sua natura di città di frontiera.
Foto: Emanuele Amighetti

La scorsa estate Como si è trovata al centro della questione migranti che ha investito buona parte dell'Europa, riscoprendo così il proprio ruolo di città di confine. La chiusura delle frontiere del Brennero e di Ventimiglia ha bloccato centinaia di persone che cercavano di raggiungere il nord Europa attraverso la Svizzera, che si sono trovate così a vivere per tre mesi in un limbo, sostando nel parco davanti alla stazione San Giovanni. Un anno dopo, un gruppo di giornalisti e fotografi comaschi ha deciso di lasciare una testimonianza concreta di quel periodo, attraverso un libro che proprio in questi giorni, fino al primo di settembre, è in fase di finanziamento su Kickstarter.

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A metà tra photobook e raccolta di reportage, con un apparato grafico particolarmente curato, il lavoro vede la collaborazione di Philip Di Salvo (giornalista e editor del progetto), Mattia Vacca ed Emanuele Amighetti (fotogiornalisti), e Giovanni Marchi (grafico), oltre a interventi scritti di Andrea Quadroni, Alessandro Ronchi e Luigi Mastrodonato. Parte dei proventi che arriveranno con la raccolta fondi, una volta coperte le spese di realizzazione del libro, verranno devoluti a un'associazione locale che si occupa del tema dell'accoglienza.

È un progetto importante che Creators vi invita a sostenere, e per saperne di più abbiamo scambiato qualche parola con i suoi autori.

Foto: Mattia Vacca

Creators: Come mai avete deciso di tornare sul tema e di realizzare qualcosa di tangibile un anno dopo gli eventi?
Philip Di Salvo: Quanto accaduto lo scorso anno in stazione è stato un momento cruciale per la città, e ha messo in discussione alcune credenze che Como aveva su di sé. I migranti bloccati in stazione hanno costretto la città a capire il suo ruolo di confine nel contesto globale della crisi dei migranti. A un anno di distanza, ci siamo interrogati su come poter tenere in vita quella storia e come darle una visibilità, anche fisica, per non farla sparire nell'illusione che la non-più-tangibile presenza di 500 persone in stazione possa coincidere anche con una soluzione. Queste persone sono ora in un campo governativo che non si vede arrivando in città, ma Como è ora di nuovo una città di confine a tutti gli effetti.

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Che tipo di contributi testuali ci sono nel libro?
Philip Di Salvo: Il libro contiene articoli pubblicati durante l'emergenza e alcuni inediti. Andrea Quadroni, il giornalista che più ha seguito i fatti, è presente in Confine con un suo reportage uscito per Open Migration e una cronologia degli eventi; Alessandro Ronchi ha scritto della sua esperienza come volontario al campo in stazione e Luigi Mastrodonato ha invece realizzato le didascalie delle foto. Io ho curato la scelta dei testi e l'editing, e conterrà anche un mio articolo uscito per The Towner e un'introduzione. Il libro è in inglese, con traduzioni in italiano.

Foto: Emanuele Amighetti

Quale stile fotografico è stato privilegiato, che idea c'è dietro? Come mai la scelta del bianco e nero?
Mattia Vacca: Occuparmi di ciò che stava accadendo nella mia città è stata per me una vera e propria esigenza. Ho iniziato a scattare a inizio luglio e ho continuato a seguire la storia quotidianamente fino alla fine di dicembre. Non mi sono mai fermato. Ad oggi, però, non considero il mio lavoro concluso: non ho mai ottenuto i permessi per fotografare i controlli e il processo di identificazione in Svizzera. La scelta del bianco e nero nasce dalla libertà totale di un lavoro personale. Durante i mesi di lavoro mi sono finanziato pubblicando le mie foto a colori sul Corriere della Sera e La Stampa, ma questo lavoro è nato dal primo giorno in bianco e nero.

Emanuele Amighetti: Ho deciso di documentare la questione nel suo svolgimento complessivo da luglio a settembre 2016, vendendo a riviste nazionali e internazionali. L'idea era raccontare l'esperienza comune vissuta da centinaia di persone, trasmettere la sensazione di limbo che ha caratterizzato le giornate vissute nel campo a fianco della stazione. Il b/n è una scelta stilistica, un modo, forse, per cercare di differenziarsi da tanti lavori usciti sul tema migratorio, per dare risalto e maggiore focus alla componente locale, circoscritta, e astrarla in certi casi dal contesto. Che è un po' il fil rouge di tutto lavoro, non solo fotografico.

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Foto: Mattia Vacca

Come si incontrano e convivono le immagini di due fotografi diversi? C'è dietro una sensibilità comune o c'è una discrepanza tra i due autori?
Emanuele Amighetti: Convivono entrambe, mi riferisco a sensibilità comune e differenza di stile. Credo sia proprio questa totale convivenza a rendere il risultato interessante. Abbiamo lavorato insieme per tutta la durata dell'evento, fotografato stesse situazioni in maniera molto differente. Mi piace pensare però che i due lavori, da soli, non avessero la stessa forza del racconto collettivo che, alla fine, si è creato con questo libro.

Mattia Vacca: Emanuele e io abbiamo riferimenti e background differenti e conseguentemente due stili ben distinti. Ho trovato molto interessante il fatto che la stessa scena sia stata fotografata con risultati così differenti. La forza di questo libro sta proprio nel fatto che si sposano visioni e stili diversi, anche nella parte testuale.

Foto: Emanuele Amighetti

Che tipo di lavoro grafico è stato fatto? So che è uno dei fiori all'occhiello del libro.
Giovanni Marchi: Per quanto riguarda il design si tratta di un progetto ibrido poco definibile in una tipologia editoriale, si tratta di un volume a metà tra il photobook e il reportage, ma non è né una né l'altra cosa. Abbiamo cercato di lavorare con una grafica contemporanea ma che allo stesso tempo potesse rimanere e invecchiare bene senza risultare superata. Proprio per questo ci siamo concessi pochi virtuosismi grafici e laddove siano stati inclusi è stato fatto per rafforzare il contenuto del libro e non il progetto grafico.

L'approccio è stato quello di mettere avanti il lavoro dei fotografi e dei giornalisti. Abbiamo usato il design come uno strumento per fruire al meglio i contenuti e la storia che raccontano. Ciò non vuol dire che il design non sia curato, anzi, lavorare con pochi elementi senza far sembrare il risultato 'povero' non è un processo semplice, si tratta di tenere tutto in equilibrio lavorando spesso su dettagli quasi impercettibili. Non aggiungo e svelo altro se non che non vediamo l'ora di mostrarvi il risultato finito, e che il nostro libro starebbe benissimo nella vostra libreria.

A un anno di distanza dai fatti, possiamo dire che Como abbia imparato qualcosa da questa vicenda?
Philip Di Salvo: Como si è guardata allo specchio e ha dovuto riscoprirsi città di confine guardando la realtà di questa epoca entrare in città. Ci sono state risposte estremamente positive, e altre prevedibilmente negative, che invece hanno confermato un certo sottotesto che caratterizza la cultura della città da sempre. Quello che è cambiato, però, è che ora ci conosciamo certamente meglio. Tenere viva la storia dei migranti in stazione è anche un modo per ricordarci che la frontiera su cui ci troviamo non è solo una mera caratterizzazione estetica e turistica: è il simbolo dell'epoca in cui ci troviamo.

Per prenotare una copia di Confine prima che finiscano, correte su Kickstarter.