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redazione VICE

Una bella serata di merda al Museo della Merda

Sì, quella dietro di me è proprio una montagna di sterco.
Vincenzo Ligresti
Milan, IT
museo merda

Attenzione: in questo articolo la parola merda viene ripetuta molte volte.

Francamente ho sempre avuto un rapporto conflittuale con la merda — nel senso letterale del termine. Eppure sono piuttosto consapevole di quanto sia fondamentale: per concimare i terreni, costruire abitazioni a impatto zero, capire il nostro stato di salute osservandone la forma e il colore.

A riprova del fatto che ne sono consapevoli anche molti altri, nell'aprile 2015 è stato inaugurato uno spazio espositivo in onore di ciò che defeca ogni essere vivente. Si chiama Museo della Merda, si trova a Castelbosco in provincia di Piacenza, e ha ricevuto un sacco di recensioni positive in pochissimo tempo dai giornali più disparati. La Stampa lo ha descritto come "un visionario ed efficientissimo progetto"; GQ come "la vittoria della merda"; The Economist come "l'espressione perfetta di quel sentimento che ci chiede di trarre il meglio da quello che abbiamo. Anche se quel che abbiamo è merda".

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Quindi quando venerdì scorso mi hanno invitato proprio lì per assistere alla registrazione un'installazione-performance al pianoforte organizzata dal Museo in collaborazione con Terraforma, ho deciso di andare a vedere l'installazione-performance e tutto il resto per capire cosa c'avrei trovato. (Arrivarci in macchina da Milano seguendo la strada più breve non è il massimo se man mano il puzzo di letame si infittisce, ma questa è un'altra storia.)

Nello specifico, il Museo della Merda è ubicato nelle sale del primo piano del Castello di Castelbosco, che si trova a sua volta all'interno dell'immensa azienda agricola dell'appassionato d'arte Gianatonio Locatelli, dove più di 3.500 bovini in cattività producono ogni giorno quintali di latte che diventano Grana Padano e centinaia di chili di sterco che diventano un sacco di altre cose. Di sera si vede ben poco, ma molti granai e strutture all'interno di questa sorta di feudo sono decorati da allegri schemi geometrici dell'artista britannico David Tremlett. Mica male.

In ogni caso, ad accogliere me e miei compagni di viaggio, c'è Luca Cipelletti, architetto molto attivo fin dagli inizi nel progetto del Museo. Mentre percorriamo insieme un vialetto poco illuminato, mi spiega che il museo è parte di un progetto più ampio basato su due parole: "circolarità" e "trasformazione". Per farvela breve, con lo sterco di vacca hanno messo su un intero museo, creato degli oggetti di design in vendita che si chiamano merdacotte, e prodotto energia elettrica grazie a speciali processi di sintetizzazione. Tutto questo col tempo, in maniera ecologica e in ordine sparso.

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Varcata la soglia del museo, mi accorgo che l'invito era davvero per pochi intimi: c'è un tavolo con un buffet piuttosto sobrio, uno con una dozzina di bottiglie di vino, e una trentina di persone di cui la maggior parte molto molto elegante e nata all'incirca quando mio padre ha emesso il suo primo vagito. Poi ci sono io con un giubbotto di Jeans, che inizio a bere in un bicchiere di merdacotta.

Dopo qualche presentazione, Luca inizia il tour del Museo della Merda per me e pochi altri giornalisti e ospiti incravattati. La prima cosa che mi fa notare, è che quello che credevo fosse una grande pietra su una sorta di piedistallo in realtà è un coprolite — ovvero uno stronzo fossile gigante. Quello accanto, invece, è sempre uno stronzo ma di un serpente, giustamente inserito all'interno della teca che si merita.

Siamo in pratica nella stanza dell'Alchimia, dove tra le altre cose si trova anche una folta collezione di barattoli, che sintetizza un po' ciò che si trova al 28esimo libro della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23/24-79 d.C.), nel quale si possono trovare un sacco di descrizioni di preparati medici a base di sterco. Per dirne una, "Eschine d'Atene curava le angine, le tonsilliti, gli abbassamenti di ugola e le ulcere cancerose con la cenere di escrementi". Mi ricorda tanto la storia di Liborio Bonifacio, il medico italiano che negli anni Settanta era convinto di poter curare il cancro con dello sterco di capra, ma anche questa è un'altra storia.

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Comunque, dato che magari vorrete andarci anche voi, non sarò io a spoilerarvi tutto tutto. Ma almeno fatemi dire le cose che mi sono piaciute (quelle che non mi sono piaciute ve le risparmio). Inizierei fin da subito con il "cesso". Nella sua descrizione sul sito del museo si può leggere che è una "replica fedele di un classico water degli anni Venti, un oggetto da esporre negli ambienti più diversi", "l'icona che più direttamente esprime il valore di ciclicità delle produzioni del Museo della Merda: un contenitore per la merda fatto di merda." Non è funzionale come il cesso d'oro di Cattelan che tutti possono usare al Guggenheim di New York, ma è davvero molto molto comodo.

Inoltre è davvero notevole una delle recenti acquisizioni del museo inserito all'interno di una sala con le pareti fatte di sterco inodore: si tratta di Alfabeto, un'opera di Claudio Parmiggiani composta da 22 fotografie, che si pongono come "la sintesi di magia, alchimia, trasformazione e alchimia". In sostanza, ci si può vedere un po' ciò che si vuole — per esempio a me è capitato di vedere il tema del doppio e due falli.

L'ultima cosa che mi è piaciuta parecchio, poi, è la stanza dello scarabeo stercorario, simbolo del Museo della Merda. Del resto, questo insetto è famoso per portarsi dietro una pallina di merda con sé e — come ci spiega Luca — questa pallina per gli antichi egizi rappresentava il sole trasportato dal dio Khepri.

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Ed è proprio nella stanza dello scarabeo stercorario che si registra l'installazione-performance al pianoforte. A realizzarla è Charlemagne Palestine (1945), un'icona della musica minimal degli anni Settanta, che non vuole essere definito così, appassionato di sciamanesimo, specialista nello strumming, e che si porta sempre dietro un sacco di peluche.

Palestine comincia la performance ticchettando i vasi di merdacotta appesi e gridando ripetutamente "questo è il suono della merda". Poi, si siede al pianoforte e alterna singole note senza mai ripetersi. Dopo ancora, si alza e inizia a girare nella stanza mentre schiaccia la pancia a due peluche che parlano. So che tutto questo può sembrare un po' assurdo, e di fatto lo è, ma alla fine sembrava che io e tutti gli spettatori ci fossimo fatti una canna per quanto Charlemagne Palestine (che per l'occasione si è ribattezzato Charlemerde) ci avesse convinto.

Il giorno dopo Charlemerde avrebbe dovuto riproporre la performance in mezzo a due montagne gigantesche di merda. Incuriosito, mi sono fatto accompagnare sul posto. Inutile dire che ho sperato di perdere l'olfatto per sempre e regalarlo a un peluche. Ero in mezzo a non so quanti centinaia di chili di merda e mi sentivo di merda — ma sono sopravvissuto per raccontarlo.

Rinsavito nella strada di ritorno per Milano (stavolta quella giusta), però, mi è tornata in mente una frase di Luca: "Alcuni ci hanno criticato sostenendo che abbiamo strumentalizzato la parola merda per destare curiosità, ma noi abbiamo semplicemente chiamato le cose con il loro nome".

Detto in tutta onestà il dubbio che avessero ingaggiato un bravo copy è venuta più volte anche a me dato che mi sono ritrovato in un contesto elegante e tutt'altro che splatter come mi ero immaginato. Ma, oh, ragazzi pur di merda si tratta. È facile a farsi, la facciamo tutti, ma sfido chiunque a trasformarla in un primo premio del Milano Design Award "per il racconto di un processo di grande complessità e innovazione, capace di destabilizzare la percezione comune". Chapeau.